Zucche tra l’asfalto, a Locarno un orto estremo

ortoPierluigiZanchi

Di Cindy Fogliani

Prendi un terreno sul quale non scommetteresti un soldo, nemmeno per piantarci un rovo: un terrapieno tutto calcinacci, un semi sterrato, ricoprilo con 40 cm abbondanti di materia organica (fieno, foglie, rifiuti vegetali crudi da cucina, potature trinciate fresche), non lavorarlo, non irrigarlo, piantaci semi o piantine e otterrai un raccolto di un’abbondanza inaudita. Inaudita non solo in rapporto alla magrezza del terreno iniziale, ma inaudita anche rispetto a qualsiasi orto anche biologico, anche sinergico, che viene coltivato magari a pochi passi da lì. È questa la nuova e vera rivoluzione nel campo dell’orticoltura, sul solco della rivoluzione del Filo di paglia, o filosofia del non fare, del giapponese Masanobu Fukuoka che trova ora il suo apice con l’orto elementare dell’italiano Gian Carlo Cappello, in cui si fa ancora meno, e si ottiene ancora di più.

I metodi di coltivazione utilizzati fino ad ora, tradizionali, convenzionali o biologici che siano vedono nel loro difetto principale – che è l’impoverimento del terreno su cui operano – l’origine di tutti i mali. Dall’impoverimento derivano piante deboli, dalle piante deboli l’attacco di parassiti, dall’attacco di parassiti la difesa dai parassiti, anche la necessità di fertilizzare è un tentativo di limitare l’impoverimento, senza parlare della coltivazione intensiva che semplicemente rende sterile il terreno che prima era fertile, per poi spostarsi disboscandone uno nuovo. Anche l’irrigazione crea più danno che benefico innescando fenomeni di erosione e dilavamento dei minerali dal terreno. Insomma, per quanto si industri, l’essere umano non riesce ad eccellere al pari della natura che si riproduce non solo senza impoverire il terreno ma arricchendolo continuamente. Fortunatamente la soluzione c’è ed è di una semplicità disarmante: fare un passo indietro e rimettere le redini nelle giuste mani.

Pierluigi Zanchi tecnico superiore in nutrizione umana, titolare del laboratorio d’artigianato alimentare biologico Tigusto SA, promotore di innumerevoli iniziative tra cui ConProBio e Lortobio di Gudo, dove da quattordici anni si sperimentano tecniche di coltivazione sostenibili e altri accorgimenti tra cui un forno solare in cui cucinare il raccolto, o una pompa a pedale per ricavare acqua dalla falda. Qui si coltiva e sperimenta biologico e sinergico da tempo e, negli ultimi cinque anni, anche la coltivazione elementare. La venuta dell’ultimo piccolo appezzamento, lasciato quasi completamente in mano alla natura, ha reso obsoleta anche la pompa: in cinque anni non è stato mai irrigato, non per incuria ma per mancata necessità. Le verdure hanno infatti goduto sempre di ottima salute, anche migliore rispetto a quelle negli orti vicini, anche nei periodi più caldi e asciutti. Ma Pierluigi è un San Tommaso e ha voluto alzare la posta in gioco, «rilanciando» quanto fatto dallo stesso Cappello ad Angera, località del Varesotto affacciata sul Lago Maggiore, dove ha ricavato un fiorente orto da un terrapieno posto ai lati di un parco giochi. Questa esperienza è magistralmente descritta nel suo libro La Civiltà dell’Orto, che è la cosa più rivoluzionaria che ci è capitato di leggere negli ultimi tempi. Il terreno capitato a Pierluigi, che ha avviato l’orto sperimentale a Locarno in collaborazione con le associazioni di quartiere Campagna e Rusca e Saleggi e del progetto «La scuola al centro del villaggio» promosso dal docente Lorenzo Scascighini, ha fatto un ulteriore salto di qualità ma verso il basso: una striscia di terra larga qualche metro, che separa il parcheggio sterrato di via Morettina dai ripari fonici in calcestruzzo armato della A13. Centodue metri quadrati che si distinguono dallo sterrato per i ciuffi d’erba e le macchie di muschio che compaiono qua e là. Una terra dove anche solo pensare di conficcare un sostegno per i pomodori è ardua impresa. In breve: l’ultima terra che uno sceglierebbe di coltivare. Dulcis in fundo: in loco non vi è approvvigionamento di acqua. Il progetto affianca la filosofia dell’orto elementare, o non-metodo Cappello, con quella dell’orto senz’acqua, introdotta in Europa da Jacky Dupety. Il metodo si può riassumere così; nessuna regola tranne due: pacciamare regolarmente in abbondanza, per uno spessore di circa venti centimetri a dipendenza del materiale utilizzato, e mai eliminare le erbe spontanee. Col tempo la quantità di pacciamatura potrà essere ridotta. La pacciamatura dovrebbe limitare la crescita delle spontanee in modo naturale ma, se così non fosse, e si ha l’impressione che queste vadano a soffocare le piante domestiche, allora la migliore soluzione è schiacciarle, così che si ripieghino con la pacciamatura ma riescano a rilasciare i semi. Attenzione: mai eliminare le erbe spontanee significa non farlo nemmeno al momento della semina, ricavando solo lo spazio per il nuovo seme o la nuova pianta. Anche se va ammesso, all’orto sperimentale di Locarno, qualche spontanea ci ha rimesso la testa per finire nel piatto. Questo, oltre a mettere a dimora le piantine o i semi aggiungendo magari un goccio d’acqua, è il lavoro che c’è da fare in un orto elementare. Così si è cominciato a Locarno, ponendo i semi direttamente sul duro selciato. «I tempi di lavoro complessivo si sono dimezzati e, del tempo di lavoro rimasto, un quarto è stato dedicato all’osservazione». Pierluigi ha fatto una delle cose più difficili per un essere umano: non intervenire e fidarsi. «Da subito ho deciso di mettere da parte tutte le teorie e i concetti che mi avevano accompagnato fino qui: calendario delle semine, rotazioni, consociazioni, concimi, microrganismi. Sia per entrare nel merito della filosofia del non fare, sia per utilizzare un approccio semplice, adatto anche ai novizi». E di novizi Pierluigi ne ha coinvolti diversi perché la collocazione dell’orto almeno per questo aspetto è favorevole: «col tempo si è creato un gruppo spontaneo di volontari e visitatori, una bella comunità intergenerazionale e anche internazionale. La leggerezza del fare orto in questo modo, liberati dai lavori fisicamente pesanti e arricchiti dall’idea non più di combattere (contro terra, erbe, insetti, molluschi) ma di collaborare (con terra, erbe, insetti e molluschi) ha portato anche a una leggerezza interiore e maggiore gentilezza e fluidità nelle relazioni. Possiamo dire di avere fatto orto con empatia, e che questa empatia si è poi rivelata anche in altri ambiti, tra cui le relazioni tra di noi. Talvolta, quando l’abbondanza del raccolto era superiore alle nostre seppur buone capacità di assorbimento, regalavamo gli ortaggi ai passanti. È stato interessante osservare il disorientamento delle persone davanti all’idea di ricevere senza dare; che è forse un po’ lo stesso disorientamento che può provare un orticoltore convenzionale davanti all’idea di smettere di faticare e ottenere nel contempo un miglior raccolto».

Mentre con l’orticoltura elementare di Cappello si pacciama unicamente con fieno, possibilmente fieno secco e maturo, cioè ricco di semi che andranno a variegare la flora spontanea, nell’orto a Locarno si è ricorso a diversi espedienti vicini alla tecnica dell’orto senz’acqua: «Abbiamo coinvolto la Città chiedendo di poter gestire l’area verde limitrofa, così da poterne ricavare fieno e anche le foglie cadute dai vicini alberi, ma anche di avere accesso alle potature cittadine trinciate fresche che di solito vengono smaltite lontano presso i centri di compostaggio. Naturalmente anche gli scarti degli ortaggi coltivati sono tornati nell’orto e pure gli scarti vegetali delle nostre cucine». Tutto questo porta a ulteriori vantaggi: «Le aree gestite a fieno hanno presentato ricche fioriture spontanee che hanno abbellito le aiuole, creato spazi naturali importanti per piccoli animali e insetti e ridotto i lavori di manutenzione a carico del Comune per cui anche le conseguenti emissioni inquinanti». Gestite in questo modo, infatti, le superfici richiedono solo uno o due tagli annuali che il gruppo di Pierluigi ha effettuato trasformando una vecchia falciatrice a benzina in falciatrice elettrica – rigorosamente ricaricata con energia solare. «Anche lo smaltimento dei rifiuti verdi genera costi economici e ambientali non indifferenti. Ricavarne trinciato da utilizzare localmente come pacciamatura valorizza questi scarti, elimina la pressione sull’ambiente e abbatte i costi di gestione». L’idea è piaciuta all’esecutivo di Arogno che, oltre a proporre un orto comunale, ha deciso di trasformare i rifiuti vegetali che andavano in discarica in pacciame a disposizione per la cittadinanza. Chi possiede un appezzamento, naturalmente, potrà rimettere direttamente in circolo i propri scarti evitando in questo modo i costi di smaltimento e diminuendo la propria impronta ecologica.

Negli ultimi due anni di gestione l’orto condiviso di Locarno ha prodotto fra i 450 e i 576 chilogrammi di cibo. Pierluigi ha calcolato che con 100 metri quadri di terreno coltivati in questo modo si può ottenere circa il 30% del fabbisogno annuo di calorie per una persona, permettendo una rivoluzione dell’economia domestica che rende mediamente 3200.- franchi l’anno che secondo lui vale la pena investire in nuovi progetti di autonomia: energetica, dei trasporti, della trasformazione degli alimenti, dando vita a un circolo virtuoso.

L’aspetto più interessante di questo successo riguarda però le analisi del terreno che sono state eseguite prima, durante e alla fine dell’esperienza sia in questo orto urbano sia in un altro orto, sorto più recentemente, alla Scuola Media 2 di Locarno: «Abbiamo effettuato le analisi in modo indipendente così da avere un doppio controllo sui risultati che in effetti hanno confermato l’esattezza dei dati. Ne è scaturito che ambedue i terreni, inizialmente poveri e inadatti alla coltivazione, si sono rapidamente arricchiti di humus e minerali fondamentali fino a divenire terreni ricchi e fertili, perfetti per coltivare. Ciò significa che abbiamo fra le mani un sistema di coltivazione semplice, a bassissimo consumo di risorse e che, per la prima volta nella storia dell’umanità, non solo non impoverisce il terreno, ma lo migliora e arricchisce costantemente».

Ora l’orto dovrà traslocare perché il comparto sarà oggetto di una messa in sicurezza dei parcheggi, necessario secondo Pierluigi che nel frattempo è entrato a far parte del Municipio di Locarno. Come sempre succede ogni fine è anche un inizio e i volontari dell’orto urbano non vedono l’ora di appropriarsi del nuovo terreno, posto nella bucolica cornice del Parco Robinson, dove li aspettano nuove entusiasmati sfide. La più importante tra queste sono probabilmente i 220 mila metri quadrati infestati dal poligono del Giappone. Una prolifica invasiva che sta tenendo in scacco tutto il Cantone generando enormi costi per il suo contenimento. L’idea è di soppiantarla con succulenti more senza spine e patate per creare una passeggiata commestibile in cui i passanti potranno godere dei frutti di piante ed alberi che saranno prossimamente messi a dimora.

Nei ritagli di tempo Pierluigi sta redigendo un libro che descrive l’esperienza di Locarno in cui i volontari non solo hanno curato l’orto ma si sono impegnati a ottenere il massimo rendimento: «Per esempio trasformando parti di vegetali che spesso vengono scartate; oppure permettendo alle verdure di fruttificare più volte, o ancora con stretti avvicendamenti delle coltivazioni e la riduzione degli spazi tra le piante». Non dubitiamo che sarà denso di interessanti accorgimenti e non mancheremo di segnalarne la pubblicazione. Pierluigi ha partecipato anche a un progetto di rinverdimento in Burkina Faso dove ha potuto appurare che con questo metodo è possibile fare arretrare il deserto. O, per esempio, terminare la Grande muraglia verde, una striscia di alberi lunga 8’000 chilometri destinata a salvare l’Africa. Un progetto importante che fatica ad avanzare: «Ho calcolato che con questo metodo basterebbero un miliardo di franchi per completarlo, ossia la quinta parte dei soldi che saranno destinati in Svizzera per i nuovi aerei da combattimento». Tra gli altri calcoli interessanti di Pierluigi ne vogliamo riportare un ultimo: se coltivassimo in modo rigenerativo, come l’orticoltura elementare permette di fare, il fabbisogno alimentare di 10 miliardi di persone sarebbe soddisfatto utilizzando poco più della ventesima parte dei terreni oggi sfruttati dall’agricoltura intensiva.